La nostra Chiesa è in zona San Pietro, famosa nel mondo per il Vaticano, la Basilica di San Pietro, per l’Angelus domenicale e tanto altro. Nella “nostra” San Pietro vivono persone senza tetto. Passando per via della Conciliazione, attraversando la piazza, guardando la Basilica non puoi non vederli, a me è capitato tante volte, anche chiedendomi perché mai dovessero stare proprio lì, in una zona così famosa e piena di turisti, in una zona così ricca di storia e bellezza. Diciamo la verità, ho pensato che doveva pur esserci un altro posto più appropriato per accoglierli. Invece Papa Francesco ha deciso che lì ci stavano bene, non stonavano con l’ambiente e li ha accolti offrendo servizi (docce, assistenza medica e, in tempo di Covid, la possibilità fare i tamponi…non poco!).

Da quando ho iniziato a partecipare a questi giri, in cui si esce in piccoli gruppi per incontrare le persone che vivono in strada, parlarci e far sentire loro che non si è soli, queste persone non le ho solo viste ma conosciute. Inizialmente nell’incontrarli mi preoccupavo di cosa fare o non fare e di cosa era meglio dire o non dire, prevaleva su tutto la diversità delle nostre condizioni di vita e di ciò che possedevamo. La definirei “la distanza delle cose tangibili“.

Una distanza davvero incolmabile, fin dalla quotidianità: io avevo una casa e loro no; io finito il giro tornavo al caldo, loro restavano al freddo. Cosa dire, che non suoni finto o futilmente melenso, a chi ha difficoltà tali che per i più di noi non sono neanche lontanamente immaginabili? Del tipo non prendo una coperta per coprirmi perché poi dove la tengo per tutto il giorno? Oppure, dove ricarico il telefono perché non ho una presa elettrica? Ci divideva un gap oggettivo non quantificabile, l’imbarazzo di chi ha di più rispetto a chi ha infinitamente meno. Difficile ammetterlo, ma le cose stavano così.

Partecipando però a questi giri le persone non solo le vedi ma le incontri e, piano piano, le conosci: domandi i loro nomi e gli dici il tuo, gli fai domande ed ascolti le loro risposte, hai accesso a inaspettate confidenze, partecipi alle loro storie. Storie di chi aspetta vivendo in strada un passaporto per potersi ricongiungere con il figlio; di chi cerca ogni giorno lavoro (che è a giornata e in nero) per mandare i soldi a casa o poter dormire una notte in un letto; di chi lavorando in nero si fa male e non ha nessuna tutela; di chi ha deciso di vivere in giro per il mondo, magari in pellegrinaggio; di chi è un artista di strada e il Covid gli ha tolto anche la strada; di chi è convinto di essere un membro della famiglia reale e ti avvisa che gli extraterrestri stanno cercando di invaderci; di chi ti chiede un paio di scarpe, ma devono essere modello stivaletto scamosciato, di colore giallo, imbottite, numero 43 (chi le avesse/trovasse può portarle in parrocchia) e vuole solo e soltanto quel tipo e se non le trovi, dopo infinite ricerche, ti senti dire: “non preoccuparti, non sono arrabbiata con te”, ricevendo un perdono anziché un grazie, capovolgimento completo della comune logica fra chi riceve e chi dà. Una rivoluzione copernicana dei rapporti, questo determina l’incontro autentico con l’altro, in cui l’Io non è più centro, neanche del proprio mondo.

Di improvviso ti ritrovi a parlare senza più pensare prima cosa è meglio dire, ti ritrovi a partecipare ai loro racconti ed a raccontare anche tu la tua vita. Ti accorgi che in comune c’è più di quanto pensavi, in comune abbiamo la stessa umanità (intesa come complesso di caratteristiche, qualità, limiti peculiari alla condizione dell’uomo).

Di improvviso ti scopri a preoccuparti se la notte piove, a buttare l’occhio quando passi nei posti dove in genere li incontri per vedere se ci sono, a preoccuparti quando è freddo chiedendoti se avranno coperte sufficienti, a cercare fra chi conosci ciò che gli manca o potrebbe servirgli. Sono gesti che nascono spontaneamente, ti accorgi di preoccuparti come accade/fai con le persone che fanno parte della tua vita. Non sono più “altro” ma “l’altro”.

L’imbarazzo cede il posto all’attenzione, prevalgono le somiglianze e le affinità rispetto alle differenze. Col tempo ci si riconosce fatti della stessa pasta, diversi solo nelle opportunità che la vita ha offerto e offre, che ciascuno riesce o meno a cogliere. Nessuna differenza nella sostanza, diversi solo all’apparenza ma sotto la lente della reciproca conoscenza ci si scopre persone simili che hanno solo storie diverse, alle prese con pari problemi quotidiani: casa, lavoro, malattie; beghe familiari, mogli, mariti, figli, fratelli; occasioni perdute e progetti, speranze, disillusioni, sogni. Se approcci qualcuno per sapere come sta difficilmente ti risponde chiedendoti qualcosa, anche se gli serve, ma ti parla, comunica, si racconta.

Questo non rende tutto bello e neanche semplice, spesso l’incontro è difficile, le persone hanno rabbia e la esprimono forte e chiara, ciascuno ha il proprio carattere e storie personali, il tutto aggravato dal vivere in strada e in situazioni di difficoltà estrema. Allora serve ascoltare anche col cuore, per comprendere in profondità ciò che pregiudizi e preconcetti spesso rendono difficile cogliere. Si tratta solo di provare a guardare da prospettive diverse e questo cambia tutto, a partire da noi stessi e dalle nostre illusorie certezze.

Ciascuna persona è ovviamente diversa, alcune persone sono simpatiche altre meno, alcune tranquille altre affatto, alcune chiacchierone altre silenziose ma proprio nell’assenza materiale si riesce meglio a cogliere di ciascuno l’unicità. È come se non fossimo distratti dalla forma e anche lo stato di bisogno, che pure hanno, capisci che non li identifica né li caratterizza se non per aspetti meramente pratici. È come dire che, se una persona cade, inciampa su un gradino, la gente attorno, in strada, guarda il gradino anziché vedere la persona caduta. È l’uomo nella sua complessità e unicità a prevalere e, occupandocene, prendendocene cura, aiutandolo scopriamo l’umanità dell’altro ma, assieme alla sua, riemerge e scopriamo anche la nostra di umanità.

La parola aiuto (letteralmente opera che in un momento di difficoltà si presta o si riceve) deriva dal latino (adiutus/adiuvare), è composta di ad/a e iuvare/giovare e contiene il giovamento (dato o ricevuto). Aiuto ha in sé giovamento, sollievo, comporta un senso di beneficio e gioia e, la gioia, evoca il Paradiso, lo stato di pace in cui l’uomo può vivere e vivrà senza più essere stretto dai bisogni, unito al Bene e nella pienezza dell’Amore. Nel gesto di aiuto verso gli altri viviamo in terra un momento di Paradiso e lo abbiamo a portata di mano, appena fuori la nostra Chiesa.

Poco tempo fa una persona mi ha chiesto che esperienza fosse per me fare questi giri, ho risposto che mi ha dato il senso della differenza tra parola e gesto. Aiuto è una parola, uscire di casa per metterlo in pratica è il gesto. Le parole sono belle ma il gesto fa la differenza.

Ofelia